A Palazzo Corvaia si consuma l’ultimo atto politico-diplomatico tra Regno d’Aragona e parte dei baroni siciliani

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Il ritorno degli Aragonesi muterà profondamente, con il possesso strategico della Sicilia, gli equilibri geopolitici presenti e futuri dell’Europa

di Santi Maria Randazzo

Con il condizionato assenso della Chiesa di Roma, indebolita dallo scisma religioso che nel 1378 aveva portato alla contemporanea elezione di due papi, i più potenti baroni siciliani avevano ottenuto il consenso a suddividere il Regno di Sicilia in quattro zone d’influenza sottoposte al diretto potere di ognuno di essi. Si consuma così l’esperienza dei cosiddetti “Quattro Vicari”, che gestirono senza alcun controllo il potere nell’Isola dalla morte di Federico IV detto il Semplice, avvenuta nel 1377, fino al 1392 e, per alcune parti della Sicilia fino al 1397. I Quattro Vicari erano il conte Francesco Ventimiglia, don Artale Alagona, Manfredo di Chiaromonte e il conte Guglielmo Peralta; di fatto, ognuno di essi esercitava l’autorità sovrana all’interno dei quattro territori in cui era stata suddivisa la Sicilia.

GLI ARAGONESI RIVENDICANO LA TITOLARITÀ DELLA CORONA DEL REGNO DI SICILIA

Dopo una lunga fase preparatoria che aveva visto i membri della Real Casa d’Aragona rivendicare sin dalla morte di Federico IV il diritto alla successione sul trono del Regno di Sicilia, l’opposizione della Chiesa di Roma e gli interessi mediterranei di Casa d’Angiò avevano fatto scoppiare una guerra iniziata con l’invasione da parte degli Angioini dello stesso Regno d’Aragona: lo scisma religioso del 1378 e la rimodulazione delle alleanze tra le varie monarchie, principati e signorie in sede europea avevano costretto l’Aragona a rinviare la presa con la forza della Corona del Regno di Sicilia, già annunciata nelle trattative diplomatiche con la Chiesa di Roma. Nel 1390 gli Aragonesi iniziano i preparativi per l’invasione della Sicilia, avendo preventivamente impedito il matrimonio tra la Regina Maria e Giovanni Galeazzo Visconti. Appresa la notizia dell’inizio delle operazioni per comporre il corpo di spedizione militare per invadere l’Isola, si sviluppa, inizialmente, tra la maggior parte dei baroni la consapevolezza che solo con l’unione delle maggiori forze siciliane si sarebbe avuta la possibilità di opporsi con qualche speranza all’invasione. Nel dicembre del 1390 viene costituita, così, una grande alleanza tra Andrea di Chiaromonte, Manfredo e Artale di Alagona. Nel frattempo gli Aragonesi emanano il bando per il reclutamento delle truppe; ma prima avevano dovuto superare i problemi legati alla stretta parentela tra il futuro Re di Sicilia – Martino il Giovane duca di Exerica, nel frattempo nominato Duca di Montblanc per avere il titolo necessario a sposare una Regina – e Maria figlia di Federico il Semplice, per cui la Chiesa di Roma aveva rifiutata la dispensa matrimoniale concessa dall’antipapa Clemente VII nel 1391.

A CASTRONOVO PER UN FRONTE COMUNE ANTIARAGONESE

Di fronte alle iniziative militari degli Aragonesi, la classe baronale siciliana tenta di ricompattarsi con il dichiarato fine di far fronte comune all’imminente attacco; così si diedero convegno il 10 luglio 1391 nella chiesetta di San Pietro a Castronovo. Oltre ai quattro Vicari, convennero Guglielmo Ventimiglia, il conte Enrico Ventimiglia, don Bartolomeo e don Federico d’Aragona, Guglielmo Rosso e Don Blasco di Alagona. Il deliberato dei partecipanti, che si impegnarono anche a nome degli altri nobili siciliani a loro sottoposti o alleati, fu quello di riconoscere Maria quale Regina di Sicilia, ma non Martino il Giovane, duca di Montblanc, quale futuro Re, e che «[…] non dovevano accogliere nessuno come marito della Regina, se prima esso non fosse stato riconosciuto tale dalla Santa Sede». (1) Parimenti cercarono di ottenere il sostegno della Chiesa di Roma, rinnovando l’obbedienza ad essa. Purtroppo gli esiti del Parlamento di Castronovo si risolsero in una farsa politica: infatti, tranne l’Alagona e il Chiaromonte, quasi tutti i baroni siciliani, singolarmente, cercarono accordi separati con gli Aragonesi, tradendo gli impegni assunti a Castronovo. L’infruttuoso esito operativo contribuì a lasciare una traccia in un componimento poetico siciliano, da diversi autori ricollegato a quell’evento, che riportiamo di seguito nel testo selezionato dal Vigo. Nell’apparente esaltazione dell’avvenimento, però, si ha la sensazione che il canto popolare possa esprimere una satira per il misero risultato ottenuto dal Parlamento di Castronovo. A Castrunovu cinquanta baruni Di tutti li paisi e li citati Ccu arceri, ccu cavaddi e ccu piduna Juraru paci supra di li spati. Poi mannaru un curreri a la Curuna; semu cca tutti pronti ed armati a servimentu di la Sacra Cruna, a difisa di vostra Maistati.(2)

TRATTATIVE ARAGONESI CON I BARONI SICILIANI

Va comunque detto che inizialmente il Parlamento di Castronovo aveva conseguito alcuni successi politici: nel dicembre del 1391, infatti, gli Aragonesi, in previsione di una forte resistenza militare nell’Isola, ritennero prudente avviare delle trattative con i baroni siciliani prima di procedere all’invio dell’armata. Martino il Vecchio, Duca di Montblanc, spedì i suoi ambasciatori, Berenguer de Cruyllas e don Guerau de Queralt, ai quali venne assegnata la funzione di luogotenenti della Regina. Costoro sbarcarono a Messina il 18 gennaio 1392, quando era ormai imminente la partenza dell’armata aragonese verso la Sicilia, cercando un rapporto diretto con Manfredo Alagona, signore della Mota de Santa Anastasia (Motta Santa Anastasia), ritenuto l’interlocutore più autorevole tra i baroni dell’Isola. L’arrivo degli ambasciatori era conseguente alle intese precedenti che avevano permesso a Martino di Montblanc di ottenere una preventiva disponibilità all’accordo da parte di molti baroni siciliani. La città di Messina, dopo aver concluso l’accordo con gli ambasciatori, si dichiarò favorevole all’assunzione al trono dei Principi Aragonesi; favorevoli furono anche Pietro Lancia signore di Galati, Giacomo Alagona signore di Giarratana e Ferla, Bartolomeo Aragona conte di Cammarata, Enrico Ventimiglia barone di Alcamo, Antonio Ventimiglia conte di Golisano e altri ancora fra coloro che avevano giurato a Castronovo: in cambio ottenevano la promessa della conferma dei feudi e dei castelli da loro posseduti non solo a titolo di eredità o di investitura, ma anche di conquista o di appropriazione. A Giacomo Alagona veniva inoltre confermata la carica di Cancelliere del Regno, a Bartolomeo Aragona quella di Siniscalco, a Federico Aragona di Maestro Razionale, a Enrico Ventimiglia la capitania di Salemi con lo stipendio di cento onze annue. (3) Dopo che gli ambasciatori aragonesi ebbero sottoscritto l’impegno nel garantire il ruolo della Chiesa Romana nell’Isola e dopo aver assicurato la legittimità dei possedimenti ai baroni siciliani, si aprì una seconda fase di trattative che vide Manfredo Alagona coinvolgere gli altri baroni e le maggiori città nella valutazione delle proposte avanzate. La fase conclusiva delle trattative si tenne l’8 febbraio 1392 a Taormina, nel palazzo dei Corvaia, dove, tra le altre concessioni fatte a Manfredo Alagona, venne garantito il possesso della Terra e del Castrum Sanctae Anastasiae, così come di tutti i luoghi, baronie e uffici già appartenenuti ad Artale Alagona. (4) Nonostante le garanzie offerte, Manfredo Alagona e i baroni mantennero in vita sia le loro forze militari che una certa volontà di resistenza a Martino di Montblanc. Nell’accordo era previsto che costui non si sarebbe più occupato degli affari del regno dopo l’insediamento di Martino e della Regina Maria. Prevedeva inoltre che i Siciliani avrebbero riconosciuto come legittimo Pontefice Bonifacio IX e che non sarebbe stato modificato il loro possesso dei beni e delle cariche: tra i grandi feudatari, solo Andrea Chiaromonte e Manfredo Alagona non aderirono alle intese e non le sottoscrissero. A conclusione delle trattative, e dopo che i baroni giurarono fedeltà ai nuovi regnanti nelle mani dei Regi Delegati, Martino di Montblanc poté finalmente realizzare la spedizione in Sicilia.

LA POSIZIONE RELIGIOSA DEI SICILIANI E LE PREOCCUPAZIONI DEGLI ARAGONESI

Già in questa fase delle trattative risalta sul piano religioso l’autorevole posizione assunta dai Siciliani che si fanno intermediatori delle questioni religiose, pretendendo e ottenendo il diritto a permanere nella linea di obbedienza al Pontefice Romano. Oltre a testimoniare l’irrinunciabilità all’appartenenza alla Chiesa Romana, questa posizione trasmette agli Aragonesi la consapevolezza del forte e leale sentimento religioso dei Siciliani, che costituisce un elemento di forte coesione veicolato al consenso politico; ma al tempo stesso rappresenta una pericolosa fonte di ribellione, se apertamente contrastato. Martino di Montblanc era memore della capacità del clero siciliano nell’orientare i comportamenti della popolazione isolana, usata come leva politica per garantire gli interessi del papato, come più volte era accaduto tra il 1392 e il 1397. Questa situazione indusse diversi feudatari, durante il Regno dei Martini, a motivare la loro opposizione agli Aragonesi sulla base della adesione di costoro allo scisma. Questa posizione risultò, ovviamente, utile alla Chiesa anche se, al tempo stesso, si sostanziò come elemento in parte condizionante della politica papale, interessata a tutelare, oltre al proprio ruolo politico-religioso, il patrimonio fondiario di cui rivendicava il possesso in Sicilia e le risorse finanziarie che da questo poteva trarre. Dopo l’occupazione della Sicilia da parte degli Aragonesi, Bonifacio IX fu costretto a scendere a patti con Martino duca di Montblanc, dovendo prendere atto della situazione di fatto esistente sul piano politico, ma potendo comunque contare sull’adesione religiosa dei Siciliani. Senza tentare, quindi, di contrastare questo sentimento religioso, gli Aragonesi riuscirono a capitalizzare in termini di potere il loro diritto nell’ambito dei rapporti con il pontefice, scaturente dalla conquista militare consolidata, dai diritti dinastici sulla Sicilia senza aver mai abdicato e di cui non avevano mai rinunciato ad affermarne il legittimo possesso. Per dare forma e sostanza giuridica alla loro potestà in ambito religioso ed ecclesiastico, gli Aragonesi ripristinano l’uso e il potere regio dell’Exequatur e del Placet, adeguandoli alle necessità politiche del momento, in linea con le esigenze politico-gestionali del nuovo modello di Stato che stavano affermando in Sicilia. Martino I, infatti, estende l’uso dell’exequatur a tutti gli atti, nomine, carte o bolle provenienti da autorità esterne al Regno di Sicilia; strumento che «[…]nel senso più largo e moderno, è conosciuto ed applicato sin dai primi atti di governo di Martino I. Scopo formale e funzionale dell’Exequatur era infatti di accertare (nell’ambito dei rapporti con la Chiesa) l’autenticità delle Bolle Pontificie; questo significano le espressioni – Quas propterea vidimus ac legi fecimus et videri – ed ancora – Prout in opportunis bullis inde sibi factis nostre curie presentatis quas inspici examinari et videri fecimus diligenter. […] Assicurata l’autenticità della bolla, il Re ne esaminava il contenuto, per vedere cioè se la bolla stava contro le consuetudini del luogo o se arrecava scandalo o pregiudizio ai terzi, proprio come era a tutte le concessioni di Exequatur si appone preventivamente la clausola – Salve le leggi dello Stato e le ragioni di terzi. Se nulla ostava, si concedeva ai vari beneficiari l’Exequatur, che soleva essere accompagnato da espressioni di rispetto e di obbedienza alla volontà del Papa. (5)

IL CONCILIO DI CASPE E LA FINE DEL REGNO DI SICILIA

Dopo la morte di Martino il Giovane, nel 1409 in Sardegna, e la successiva scomparsa del padre, Martino il Vecchio, subentrato per testamento nel trono di Sicilia, l’Isola vivrà due anni di guerra civile che vedrà contrapposte le fazioni della seconda moglie di Martino il Giovane, Bianca di Navarra, e Bernardo Cabrera conte di Modica, che, dopo essere stato catturato sotto le mura di Palermo, sarà tenuto prigioniero nelle carceri della Mota de Santa Anastasia. Con la celebrazione del cosiddetto “Concilio di Caspe” nel 1412, la Sicilia perderà lo status di Regno e sarà declassata a Viceregno.

NOTE

1. ENRICO STINCO, La politica ecclesiastica di Martino I in Sicilia (1392-1409), vol. I, Relazioni tra Stato e Chiesa, Ed. Scuola Tipografica “Boccone del Povero”, Palermo, 1920, p. 17.

2. LEONARDO VIGO, Raccolta amplissima di canti popolari siciliani, Tipografia Galatola, II Edizione, Catania, 1870-74, p. 681.

3. GINA FASOLI, L’unione della Sicilia all’Aragona, in «Scritti di storia medioevale», Bologna 1974, pp. 413-442. 4. GERONYMO CURITA DE OLIVAN, Los cincos libros de la primera parte de los anales de la Corona de Argon, Secunda parte, Officina de Domingo Portonarijs, Saragoca MDLXXIX, Libro X, cap. XLIX, p. 404.

5. ENRICO STINCO, La politica ecclesiastica di Martino I… cit., pp. 111-112

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